Cibi Genuini

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Fregula: tipica pasta sarda

La fregula è un tipo di pasta di semola prodotto in Sardegna, è formata da piccole palline di grano duro e acqua, lavorate a mano e tostate poi nel forno. Vista la sua forma è chiamata il cous cosu italiano anche se è più simile ai Berkoukes nordafricani e ai ptitim israeliani. Non sappiamo con certezza se la fregola, come tanti cibi della cucina sarda, sia nata da influenze puniche, cartaginesi o dalle sapienti mani autoctone delle donne sarde, l’unica cosa che sappiamo è che un documento dello Statuto dei Mugnai di Tempio Pausania risalente al XIV secolo ne regolamentava la preparazione, che doveva avvenire rigorosamente dal lunedì al venerdì, per potere destinare ai campi l’acqua del sabato e della domenica. Come si prepara la fregula? La si puà trovare di varie dimensioni, ma normalmente la pallina fatta di pasta semola ha una diametro di circa 2-3 mm. Per prepararla bisogna disporre la semola su un piatto largo e fondo di terracotta, impastandola e lavorandola con un movimento circolare delle mani utilizzando acqua tiepida e salata. Dopo di che viene lasciata asciugare su un telo e poi tostata in forno per una quindicina di minuti: questo processo garantisce l’assunzione del caratteristico colore dorato e il sapore davvero unico e particolare. Tra le ricette con la fregola più rinomate v’è sicuramente quella della fregula con cocciula, ossia fregola con le arselle. Da non confondere però con le telline toscane e genovesi, le arselle della cucina sarda sono vongole veraci, per l’appunto, sarde, che insieme all’artigianale pasta di semola permettono di mangiare un piatto buono, sano e genuino!

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Obesità e conservanti

Obesità : i conservanti alimentari possono interferire a livello ormonale e promuoverla L’obesità presenta una genesi di natura multifattoriale, e sempre più evidenze stanno portando a considerare fra le cause d’insorgenza l’assunzione, sempre più massiccia, di alcuni conservanti alimentari che vengono aggiunti ai cereali per la prima colazione e ad altri prodotti quotidiani. Ricerca Clinica e di Base Un nuovo studio pubblicato in Nature Communications spiega come i ricercatori del Cedars-Sinai abbiano sviluppato una nuova piattaforma e un protocollo per testare gli effetti delle sostanze chimiche note come disgregatori endocrini sull’uomo. Le tre sostanze chimiche testate in questo studio, presenti in abbondanza nella vita moderna, sono il butilidrossitoluene (BHT) che è un antiossidante comunemente aggiunto ai cereali per la prima colazione e ad altri alimenti, al fine di proteggere le sostanze nutritive e conservare i grassi; l’acido perfluorooctanoico (PFOA) che è un polimero presente in alcune pentole, moquette e altri prodotti e la tributiltina (TBT) che è un composto presente nelle vernici che può entrare nell’acqua e accumularsi nei frutti di mare. I ricercatori hanno utilizzato tessuti che producono ormoni, coltivati da cellule staminali umane per dimostrare come l’esposizione cronica a queste sostanze chimiche può interferire con i segnali inviati dal sistema digestivo al cervello per indicare che siamo “sazi” dopo i pasti. Quando questo sistema di segnalazione si interrompe, le persone spesso continuano a mangiare e aumentano di peso. La scoperta più rilevante é che ognuno di questi prodotti chimici ha danneggiato gli ormoni reponsabili della comunicazione tra l’intestino e cervello, ma non solo: nel testare i tre additivi contemporaneamente, lo stress causato si è dimostrato molto più grave. Tra le tre sostanze chimiche testate, il butilidrossitoluene ha prodotto effetti più dannosi rispetto alle altre. Inoltre, altri scienziati hanno dimostrato che questi composti possono distruggere i sistemi ormonali negli animali da laboratorio, ma il nuovo studio è il primo ad utilizzare le cellule staminali pluripotenti e i tessuti umani per documentare come i composti possono disturbare gli ormoni critici per la segnalazione intestinale e prevenire l’obesità nelle persone.  Questo studio rafforza quanto già evidenziato anche dalla metodologia Pneisystem, ovvero che gli interferenti endocrini possono danneggiare i sistemi ormonali umani e contribuire all’epidemia di obesità. Per i loro esperimenti, il team di ricercatori ha utilizzato per primi i campioni di sangue prelevati dagli adulti e poi, attraverso la riprogrammazione dei geni, ha convertito le cellule in cellule staminali pluripotenti indotte. Quindi, utilizzando queste cellule staminali, ha sviluppato il tessuto epiteliale umano e tessuti neuronali della regione dell’ ipotalamo del cervello, la regione che regola l’appetito e il metabolismo. I ricercatori hanno poi esposto i tessuti a BHT, PFOA e TBT, uno per uno e anche in combinazione e osservato che le sostanze chimiche hanno interrotto reti che consentono agli ormoni di segnalazione di mantenere la loro struttura e essere trasportati fuori dalle cellule, rendendoli inefficaci. Le sostanze chimiche hanno anche danneggiato i mitocondri – strutture cellulari che trasformano cibo e ossigeno in energia e guidano il metabolismo del corpo. Poiché i danni chimici si sono verificati nelle “giovani” cellule, i risultati suggeriscono che un sistema ormonale difettoso potrebbe potenzialmente influenzare una madre incinta e il feto nel grembo materno. La nuova mission del Nutrizionismo pone grande attenzione alla cura dell’obesità, in quanto metodologia all’avanguardia per la gestione delle patologie a carattere endocrino e metabolico. Tale mission concentra la terapia su 4 pilastri fondamentali: – Ottimizzare le risorse psichiche attraverso l’apprendimento delle tecniche più moderne di gestione dello stress. – Dieta personalizzata in chiave antiossidante e antinfiammatoria – Potenziare l’asse psico-immunologico attraverso il movimento inteso come attività quotidiana – Saper selezionare i migliori integratori/ fitoterapici/nutraceutici/principi della low dose medicine e comporre un piano terapeutico centrato sulla persona.   Dott. Alfredo Iannello, Nutrizionista  (www. alfredoiannello .it)

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Antiossidanti, farmaco naturale

Molte volte abbiamo sentito parlare di antiossidanti, ma non tutti ne conoscono la natura, le proprità e ancor meno dove reprirli, vediamo allora di darvi alcune importanti indicazioni tratte dal libro “Leonardo Da Vinci e la Dieta Mediterranea“ (scritto da Alfredo Iannello e Marco Biffani ed edito da Amrita Edizioni). Gli antiossidanti possono essere endogeni (prodotti dall’organismo umano) o esogeni, elaborati dalle piante per la propria difesa. Tra le diverse classi di antiossidanti presenti nei prodotti ortofrutticoli freschi, le più comuni sono: l’acido ascorbico (vitamina C); i carotenoidi (i pigmenti dalla colorazione gialla, arancione e rossa di cui sono ricchi i vegetali e i frutti giallo-arancio per la presenza di betacarotene e quelli rossi come il pomodoro per la presenza di licopene); i composti fenolici (presenti in elevata concentrazione praticamente in tutti gli alimenti di origine vegetale e nell’uva, quindi anche nel vino); i tocoferoli (presenti nei semi oleosi e negli ortaggi a foglia verde) . In cucina: anziché assumere integratori di singole vitamine, minerali e antiossidanti, è molto più efficace consumarli nel loro contesto naturale, cioè nella frutta e negli ortaggi dai colori vivaci. Ingerire solamente il singolo elemento di cui siamo carenti significa ignorare, infatti, la complessa e per molti versi sconosciuta dinamica della natura. Mangiando un’arancia, ottima per la salute, non assumiamo solo vitamina C, ma tutta una serie di altre sostanze benefiche per l’organismo, che agiscono in sinergia con le vitamine e con gli altri enzimi, minerali, ormoni e micronutrienti in essa contenuti in modo ancora ignoto (ma salutare). Proprietà: gli antiossidanti sono particolarmente importanti perché contrastano le ossidazioni prodotte dai radicali liberi, (tossine particolarmente dannose prodotte dalle reazioni chimiche generate soprattutto da quei laboratori che sono le nostre cellule). Il Ministero della Salute statunitense ha messo a punto una scala (ORAC) per misurare la capacità degli antiossidanti di assorbire i radicali liberi (ma ci risulta non sia stata considerata del tutto affidabile). L’alimento più ricco di antiossidanti è il succo d’uva nera. Un bicchiere di succo corrisponde a 5216 unità ORAC.

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Marchi DOP, IGP, BIO…

Qual è il significato dei marchi DOP e IGP? I prodotti Biologici che marchio devono avere? Che differenza c’é tra DOP e IGP e IGT?  Il marchio DOP certifica i prodotti realizzati esclusivamente nel territorio di Origine dichiarato. Il marchio IGP certifica che le fasi più importanti della lavorazione, ovvero quelle che conferiscono al prodotto le sue peculiari caratteristiche, sono svolte in una determinata località. Nel caso dell’IGP, quindi, il processo produttivo non è svolto esclusivamente nella zona di Origine. Dal mese di marzo 2016 in base ad una normativa europea per il cosiddetto “latte fieno” e i suoi derivanti è possibile inserire la voce in etichetta “STG” ovvero Specialità Tradizionale Garantita. L’articolo 2 del Regolamento CE n. 510/2006 specifica: “Si intende per: «Denominazione D’origine», il nome di una Regione, di un luogo determinato o, in casi eccezionali, di un paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare: – originario di tale regione, di tale luogo determinato o di tale paese – la cui qualità o le cui caratteristiche sono dovute essenzialmente o esclusivamente ad un particolare ambiente geografico, inclusi i fattori naturali e umani – la cui produzione, trasformazione e elaborazione avvengono nella zona geografica delimitata; «Indicazione Geografica», il nome di una regione, di un luogo determinato o, in casi eccezionali, di un paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare: – come originario di tale regione, di tale luogo determinato o di tale paese – del quale una determinata qualità, la reputazione o altre caratteristiche possono essere attribuite a tale origine geografica – la cui produzione e/o trasformazione e/o elaborazione avvengono nella zona geografica delimitata”. E specifica altresì che “Sono considerate come denominazione d’origine e indicazioni geografiche le denominazioni tradizionali, geografiche o meno, che designano un prodotto agricolo o alimentare e che soddisfino i requisiti di cui al precedente” elenco. L’acronimo di Specialità Tradizionale Garantita, STG è un marchio che tutela a livello comunitario le produzioni agricole o alimentari tradizionali legate alla tradizione di una zona ma che non vengono necessariamente prodotti in tale zona. Sono prodotti agroalimentari che possiedano qualità specifiche derivanti dalle materie prime utilizzate, oppure dalle tecniche di produzione o di trasformazione utilizzate. Nel caso dei vini esiste il marchio IGT che non va confuso con IGP. Infatti IGT è l’Identificazione Geografica Tipica dei vini e serve per stabilire la zona geografica di produzione, i vitigni, le caratteristiche enologiche (es. colore), ed altri parametri. Il marchio BIO, ovvero il marchio che attesta una produzione biologica, è disciplinato dal regolamento CE n.834/2007, che cerca di fare chiarezza, di seguito alcuni stralci: “….La produzione biologica è un sistema globale di gestione dell’azienda agricola e di produzione agroalimentare basato sull’interazione tra le migliori pratiche ambientali, un alto livello di biodiversità, la salvaguardia delle risorse naturali, l’applicazione di criteri rigorosi in materia di benessere degli animali….. prodotti ottenuti con sostanze e procedimenti naturali”. Il regolamento europeo è molto chiaro, per tale motivo una azienda realmente biologica dovrebbe essere sinonimo di alimenti sani e genuini. Purtroppo, però, come negli altri settori commerciali anche in quello alimentare le truffe sono dietro l’angolo, e quindi occorre fare attenzione durante l’acquisto dei prodotti, cercando di capire, cercando informazioni sull’azienda (a volte basta Internet), se si tratti veramente di una produzione biologica. Il regolamento europeo continua specificando: “…Al fine di evitare l’inquinamento dell’ambiente, in particolare delle risorse naturali come il suolo e l’acqua, la produzione animale biologica dovrebbe prevedere… uno stretto legame tra tale produzione e la terra, idonei sistemi di rotazione pluriennale e l’alimentazione degli animali con prodotti vegetali provenienti dall’agricoltura biologica coltivati nell’azienda stessa o in aziende biologiche vicine…. Gli elementi essenziali del sistema di gestione della produzione biologica vegetale sono la gestione della fertilità del suolo, la scelta delle specie e delle varietà, la rotazione pluriennale delle colture, il riciclaggio delle materie organiche e le tecniche colturali. Si dovrebbe ricorrere all’aggiunta di concimi, ammendanti e prodotti fitosanitari soltanto se tali prodotti sono compatibili con gli obiettivi e i principi dell’agricoltura biologica”. Di particolare interesse la parte del regolamento che vieta l’uso di OGM nell’agricoltura biologica.  “È vietato l’uso di OGM nella produzione biologica. A fini di chiarezza e di coerenza, occorre precludere la possibilità di etichettare come biologico un prodotto che deve essere etichettato come contenente OGM, costituito da OGM o derivato da OGM. Gli organismi geneticamente modificati (OGM) e i prodotti derivati od ottenuti da OGM sono incompatibili con il concetto di produzione biologica e con la percezione che i consumatori hanno dei prodotti biologici

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Come riconoscere una buona anguria?

L’anguria è uno dei frutti più buoni e salutari che la stagione estiva ci offre. Ricca di vitamine, soprattutto A e C e di sali minerali come potassio e magnesio, è un potente alleato della dieta con sole 30 kcal per 100 gr, oltre che ad essere un frutto dissetante e depurativo. L’anguria inoltre contiene molta acqua aiutandoci dunque a combattere la ritenzione di liquidi. Ma come facciamo a riconoscere una buona anguria? Basta saper leggere la sua buccia! Vediamo dunque quali sono le caratteristiche esteriori che dobbiamo valutare: -Le linee: se le linee sono molto vicine tra loro nella parte inferiore, significa che la buccia è più sottile e dunque il frutto interno contiene molta polpa e sarà più gustoso. – Il colore: osserva bene le varie strisce presenti sulla buccia, più il colore si avvicina al verde scuro, più è sinonimo di stagionalità e dolcezza. – Lo stelo: l’anguria con lo stelo arricciato è sempre più dolce di quella che ha lo stelo dritto. – Il punto di appoggio: cerca il punto dove il frutto è rimasto sul terreno durante la maturazione, quel punto deve essere di un colore giallo, se lo vedi bianco o verdastro significa che il frutto è stato colto prima della sua maturazione. Buona ricerca e buon appetito!

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Asparagi antica miniera di potassio ed acido folico

Gli asparagi (Asparagus officinalis), della famiglia delle Liliacee, sono dei germogli teneri e ricchi di polpa che nascono spontaneamente nei boschi (la specie Asparagus acutifolius), ma vengono anche coltivati industrialmente, sia nei campi che nelle serre (asparagiaie). Le varietà più comuni sono: asparago bianco: tale perché coltivato volutamente in assenza di luce solare; asparago violetto: dal colore lilla e dal sapore leggermente amarognolo; asparago verde: coltivato alla luce del sole, dal sapore dolciastro, è il più usato in cucina. La Cina è attualmente di gran lunga la più grande produttrice di asparagi. Il nome asparago è di origine persiana. Sembra che i primi a coltivarlo siano stati gli egizi, ma furono i romani – che ne erano ghiotti – a farne una coltivazione intensiva e un uso massiccio in cucina. Sia la coltivazione che la preparazione e le ricette sono citate da Plinio, Catone e Apicio. Nel Cinquecento, la coltivazione si estese ad altri Paesi europei e fu portato dai colonizzatori anche in Nordamerica. Si mangiano lessati, saltati in padella, cotti al vapore e sono oggetto di diverse ricette locali e regionali. Possono essere cucinati alla parmigiana, con le uova, al burro e formaggio, coi funghi, con vinaigrette, con burro, olio d’oliva, sale e parmigiano reggiano. Vengono anche usati per preparare risotti, paste, zuppe, vellutate, mousse. Occupano un posto di diritto nella dieta mediterranea, dove spesso vengono consumati lessi intinti in un pinzimonio (in romanesco cazzimperio) di sale, olio d’oliva e pepe. L’asparagina, un amminoacido presente in gran quantità in questa verdura, produce ottime proteine valide per l’organismo (alcuni prodotti di scarto conferiscono all’urina un odore molto particolare). Oltre ad avere un notevole contenuto di potassio, gli asparagi sono ricchi di acido folico, diversi minerali, vitamine, e portano benefici al cuore, al sistema nervoso e ai muscoli in generale. Sono anche diuretici e contrastano le malattie reumatiche. Inoltre, vengono usati come decotti. La presenza di una particolare proteina li rende possibile causa di allergia. 100 grammi di asparagi di bosco generano 35 kcal (146 kj). 100 grammi di asparagi di serra generano 24 kcal (100 kj). L’IG è circa 15.

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Grano…. si ma senza glifosato

Se esiste una pianta che per millenni è stata considerata più preziosa dell’oro è sicuramente il grano. Materia prima dei due alimenti che sono stati e sono ancora oggi alla base della nostra alimentazione, il pane e la pasta. Il Grano duro ( triticum durum), che è la varietà di grano più utilizzata per la produzione della pasta, viene coltivato, in Italia, prevalentemente in Sicilia ed in Puglia ma anche in aclune aree dell’Italia centrale e settentrionale. I grani italiani sono, però, considerati “deboli” a causa del loro minore contenuto di glutine, sostanza che consente, alla pasta, una migliore “resistenza” durante la cottura, e per questo motivo molti produttori (ma potremmo dire quasi tutti) preferiscono utilizzare grani esteri accordando particolare preferenza a quello canadese per la produzione di pasta e di prodotti da forno. Ma sarà vero che il grano più utilizzato dai produttori di pasta italiani, cioè quello canadese, ci garantisce un prodotto qualitativamente superiore e genuino? La risposta è NO, anzi tutt’altro. Vediamo di capire meglio perché. Per cominciare possiamo dire che se da un lato, il grano canadese, possiede una maggiore presenza di glutine dall’altra contiene un’alta concentrazione di glifosato. Ma cosa è il glifosato ? Il glifosato è una sostanza utilizzata in pesticidi e diserbanti, commercializzata, per la prima volta, negli anni ’70 dalla nota azienda Monsanto. In Canada l’utilizzo del glifosato è consentito sia prima che dopo la semina. In Italia invece…: Il Ministero della Salute – Direzione Generale per l’Igiene e la Sicurezza degli alimenti e la Nutrizione il 09 agosto 2016 ha emesso un Decreto di “revoca di autorizzazioni all’immissione in commercio e modifica delle condizioni d’impiego di prodotti fitosanitari contenenti la sostanza attiva glifosate in attuazione del regolamento di esecuzione (UE) 2016/1313 della Commissione del 1°agosto 2016”. Questo Decreto, all’Art.1, recita testualmente: “A decorrere dal 22 agosto 2016 si adottano le seguenti disposizioni di modifica delle condizioni d’impiego di prodotti fitosanitari contenenti la sostanza attiva glifosate: – revoca dell’impiego nelle aree frequentate dalla popolazione o dai gruppi vulnerabili di cui all’articolo 15, comma 2, lettera a ) decreto legislativo n. 150/2012 quali: parchi, giardini, campi sportivi e aree ricreative, cortili e aree verdi all’interno di plessi scolastici, aree gioco per bambini e aree adiacenti alle strutture sanitarie; – revoca dell’impiego in pre-raccolta al solo scopo di ottimizzare il raccolto o la trebbiatura; – inserimento nella sezione delle prescrizioni supplementari dell’etichetta in caso di impieghi non agricoli, della seguente frase: “divieto, ai fini della protezione delle acque sotterranee, dell’uso non agricolo su: suoli contenenti una percentuale di sabbia superiore all’80%; aree vulnerabili e zone di rispetto, di cui all’art.93, comma 1 e all’art.94, comma 4, del decreto legislativo 3 aprile 2006, 152 ” (http://www.trovanorme.salute.gov.it/norme/renderNormsanPdf?anno=2016&cod… ) Certo è poca cosa ma in sostanza in Italia e nell’Unione Europea è vietato nella produzione agroalimentare. Tutto questo perché considerato cancerogeno sulla base di una valutazione espressa, nel 2015, dalla International Agency for Reserch on Cancer (organo dell’O.M.S. considerato la massima autorità in campo oncologico). Allora perché, per la produzione del grano canadese, viene utilizzato il glifosato? Il motivo, in realtà è abbastanza semplice: quella del grano, che nelle nostre aree viene seminato in autunno, è una coltura che di norma avviene in zone calde che permettono la sua maturazione verso la fine di giugno, periodo in cui le spighe passano dal colore verde al classico color “oro”. Durante questo naturale passaggio di maturazione il grano perde parte del suo contenuto di glutine e di sostanze nutritive. In Canada, cosi come nel nord degli Stati Uniti, il grano viene seminato, per questioni climatiche, in primavera e raccolto in autunno. In autunno, però, in Canada il clima comincia divenire molto piovoso allora per ovviare alla lentezza di maturazione in quel periodo, le coltivazioni, 20 giorni circa prima del raccolto, vengono trattate con il glifosato che, di fatto, secca immediatamente la pianta e lo fa quando la spiga non ha ancora raggiunto il suo stato di maturazione naturale. Questo comporta da un lato una maggiore presenza di glutine e sostanze nutritive, perché la maturazione della pianta viene arrestata nel momento in cui non ha ancora avuto il calo di sostanze che si registra nell’ultima fase della maturazione (come, invece, avviene per il nostro grano). Dall’altro, però, il grano prodotto con questo sistema non si può considerare genuino, in quanto le tracce del glifosato rimangono nel prodotto finale. Riuscire ad evitare di mangiare un buon piatto di pasta con glifosato non è impresa semplice, l’unico consiglio che ci sentiamo di darvi è quello di fare riferimento al pastificio artigianale più vicino a voi, dove, con un po’ di fortuna, potrete trovare un artigiano in grado di indicarvi la provenienza del grano che ha originato la farina che utilizza per la sua produzione.

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Barbabietola: farmaco-alimento

La barbabietola o rapa rossa (Beta vulgaris), della famiglia delle Chenopodacee, è un tubero che, nella varietà destinata all’alimentazione (esistono anche quelle destinate al foraggio e quelle da zucchero), è considerato un vero e proprio concentrato di sostanze benefiche. Ben conosciute nel nostro Paese sono la barbabietola tonda di Bassano e la barbabietola rossa di Chioggia. Storia: documenti storici dell’antica Babilonia ne testimoniano la coltivazione nel bacino del Mediterraneo molti secoli prima di Cristo. Gli antichi romani la usavano anche per calmare la febbre. In cucina: è utilizzata per insalate, risotti, creme, vellutate. Anche da cotta conserva le sue proprietà salutari, e caratterizza i piatti con il suo colore e il sapore dolce. Le barbabietole in commercio, lessate e pronte sottovuoto, sono del tutto prive di conservanti, perché contengono antibiotici naturali che hanno funzioni antibatteriche e combattono le muffe. In frigorifero si mantiene per qualche settimana. Proprietà: ha discrete calorie (che le provengono dai carboidrati), è ricca di cellulosa, fibre, vitamina C, minerali (iodio, calcio, fosforo, sodio e un po’ di ferro). In particolare, la barbabietola è l’unico alimento a contenere betaina, una sostanza che facilita il metabolismo delle proteine e livella il quantitativo di colesterolo nel sangue diminuendo la pressione. Equilibra inoltre i grassi prevenendo l’obesità e rallentando l’insorgere dei tumori, soprattutto al colon (le proprietà antitumorali della barbabietola sono confermate da alcuni studi realizzati in Grecia nel 1983 e pubblicati sull’International Journal of cancer) . Tra le diverse sostanze utili per la salute contenute nella barbabietola ricordiamo i tannini (che agiscono contro i grassi in eccesso) e particolari antocianine (potenti antiossidanti che stimolano anche la produzione dei globuli rossi). Alla barbabietola sono riconosciuti notevoli effetti terapeutici per l’intestino (anche contro la stitichezza e alcune tossine del tratto gastrointestinale) e per il flusso sanguigno. È diuretica, rafforza il sistema immunitario, aiuta a combattere il sovrappeso e sembra sia utile addirittura per l’aterosclerosi. È, insomma, uno di quei cibi che chiamerei “farmaco-alimento”. In particolare, il succo della rapa rossa, con il suo concentrato di nitrati, abbassa sensibilmente la pressione arteriosa già dopo un’ora e per le ventiquattr’ore successive all’assunzione. Sembra che la saliva trasformi chimicamente i nitrati contenuti nella rapa in nitriti che, una volta raggiunto lo stomaco, si trasformano in ossido nitrico. Per gli sportivi è importante perché provoca vasodilatazione e iperossigenazione muscolare. Dalla barbabietola si estrae un colorante naturale, l’E162, usato nell’industria alimentare. 100 grammi di barbabietole rosse crude generano 19 kcal (79 kj), cotte circa 65 kcal (272 kj). L’IG passa da circa 30 se crude, a circa 85 se cotte. (tratto dal libro “Leonardo Da Vinci e la Dieta Mediterranea“  – scritto da Alfredo Iannello e Marco Biffani ed edito da Amrita Edizioni

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L’intolleranza al lievito

Rubrica Nutraceutica: Intolleranza al lievito L’intolleranza alimentare al lievito si manifesta con fastidiosi disturbi a stomaco e intestino, che si fanno più intensi quando si mangiano pane, focacce, pizza ma anche brioches e pasticcini. I segnali più comuni si presentano, almeno all’inizio, come comuni problemi di digestione: pancia gonfia; diarrea o, al contrario, stitichezza; mal di pancia; sintomi di indigestione; bruciori di stomaco; aria con associata flatulenza. Chiaramente, quando il paziente afferma di aver “male alla pancia” o di aver “digerito male”, saranno presenti anche segnali più generali: stanchezza e difficoltà a riposare bene; mal di testa; spossatezza fisica anche nel corso dell’attività sportiva; nervosismo. Ciò che emerge dalla descrizione dei sintomi è come il quadro di fastidi non sia specifico del lievito e, di conseguenza, della non tolleranza ai prodotti che lo contengono. Per questo motivo, soprattutto se i disturbi persistono per lungo tempo, è importante rivolgersi al medico per escludere alcune malattie intestinali, anche importanti. L’anamnesi e la corretta definizione della storia clinica condurrà l’esperto a supporre una intolleranza al lievito di birra e, di conseguenza, a prescrivere una dieta a esclusione della durata di circa 60 giorni. I sintomi infatti, in questa come in tutte le altre intolleranze, sono di natura transitoria e sono direttamente correlati all’assunzione di prodotti che contengono l’ingrediente non sopportato. È essenziale perciò verificare le etichette dei prodotti che si acquistano. Molti prodotti oggi sono preparati con il lievito chimico, indicato anche come polvere lievitante nella lista degli ingredienti. “La maggior parte delle polveri lievitanti sono costituite da un componente alcalino (solitamente bicarbonato di sodio), da uno o più sali acidi (come l’acido tartarico) e da un amido inerte (perlopiù amido di mais ma anche fecola di patate)”. Fonte Wikipedia Per la corretta verifica dell’etichetta è inoltre utile sapere che cosa sia il lievito di birra. Il classico lievito di birra per i prodotti da forno e per la panificazione è costituito da colture di Saccharomyces cerevisiae, invece quello naturale, che si ottiene lasciando fermentare della pasta fresca a base di farina e acqua, contiene oltre al Saccharomyces anche altre specie di lieviti e vari batteri. L’intolleranza al lievito di birra si risolve come tutte le altre con una dieta a esclusione, prima, e a rotazione, poi. Lo scopo è quello di “rieducare” all’assunzione di tutti gli alimenti. In un primo momento, per ridurre la sgradevole sensazione di gonfiore e irritazione intestinale, si può ricorrere all’assunzione di Lactobacillus acidophilus (fermenti lattici) per depurare l’intestino, favorire la corretta proliferazione della flora batterica e la digestione. Dott. Alfredo Iannello Nutrizionista

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